Ardigò Roberto

Professioni: Professore, professore universitario, amministratore pubblico
Ambiti di produzione: Filosofia, pedagogia, psicologia
Luoghi di attività: Lombardia, Veneto, Italia

Roberto Ardigò nacque il 28 gennaio 1828 a Castedidone (Cremona) da una famiglia di condizioni agiate, che, a causa di traversie economiche, si trasferì, nel 1836, a Mantova. Qui, nel 1845, dopo il ginnasio, entrò nel liceo del seminario vescovile e, grazie a un maestro d'eccezione come don Enrico Tazzoli, si formò sia alle idee del cattolicesimo liberale sia agli orientamenti della cultura laica e democratica. Intraprese poi, nel 1848, gli studi di teologia presso il seminario di Milano, che proseguì a Mantova, sotto la guida di mons. Luigi Martini, il confortatore dei martiri di Belfiore.

Ordinato sacerdote tre anni dopo, l'A. frequentò per un breve periodo corsi teologici a Vienna, insegnando successivamente nei vari gradi scolastici del seminario vescovile mantovano. Nel 1864, divenuto docente di Filosofia presso il liceo classico di Mantova, si impegnò pure in varie iniziative a favore dell'istruzione popolare e fu altresì attivo nella vita culturale della città.

Presenza costante all'interno dell'Accademia Virgiliana, anche per sua iniziativa venne creato un Gabinetto di lettura per la diffusione degli ideali umanitari e la divulgazione della cultura scientifica. Proprio in quegli anni l'A. si andò accostando alla filosofia positivista, trovando spunto – come egli stesso avrebbe più tardi dichiarato – dalla lettura del saggio di Pasquale Villari, La filosofia positiva e il metodo storico (1866).

Furono questi gli anni decisivi per la maturazione di una svolta personale e culturale che ebbe come esito l'abbandono del sacerdozio. Il noto discorso su Pietro Pomponazzi tenuto il 17 marzo 1869, in occasione della festa scolastica del liceo, gli valse la sospensione a divinis. La proclamazione del dogma dell'infallibilità pontificia (18 luglio 1870), proprio in coincidenza con l'arrivo nella diocesi di Mantova di mons. Rota, un vescovo noto oppositore delle idee liberali, concorse alla sofferta decisione di svestire l'abito talare, nell'aprile del 1871.

In seguito, l'A. venne sottoposto a continue ispezioni ministeriali a causa dell'impostazione del suo insegnamento, considerato poco ligio ai canoni tradizionali. Nel frattempo, era stato eletto nel consiglio comunale di Mantova, con i voti repubblicani e radicali, ma la bocciatura del suo progetto idraulico per il risanamento della città ne provocò le immediate dimissioni e il conseguente allontanamento dal mondo politico. A partire da questo momento, infatti, l'A. si dedicò in maniera esclusiva agli studi, evitando ogni impegno non strettamente intellettuale, non entrando neppure nelle file della massoneria, di cui criticò spesso, anche in pubblico, lo spirito settario. Nel 1881, il filosofo ottenne per «chiara fama» la docenza di Storia della filosofia, presso l'università di Padova, un provvedimento che fece un certo clamore e che non mancò di suscitare discussioni in Parlamento.

Tra il 1870 e il 1880 apparvero le sue prime opere (in particolare La psicologia come scienza positiva, 1870), in cui si manifesta preminente l'interesse verso le modalità conoscitive del soggetto. Il tentativo di offrire un contributo teorico alla fondazione scientifica della psicologia lo portò a confrontarsi con le principali ricerche di livello europeo allo scopo primario di sottoporre a indagine la formazione della conoscenza. Era questo il passo introduttivo per costruire su solide basi le scienze morali e sociali. L'origine dei doveri e delle idealità morali non era così posta nella formulazione aprioristica di norme e valori, bensì a partire dal principio psicologico dell'interiorizzazione delle norme sociali.

Con l'uscita, nel 1878, della Morale dei positivisti, A. arrivò alla formulazione del cosiddetto «ideale antiegoistico», nell'intento di proporre un'etica laica che evitasse le strettoie utilitaristiche.

Il costante interesse del filosofo mantovano al mondo della psiche e alle modalità di apprendimento del soggetto, lo portarono ad elaborare una teoria della conoscenza con ricadute anche nel campo pedagogico e didattico. L'A. arrivò ad anteporre al parallelismo ontogenetico, proposto da Spencer, la teoria del «lavoro abbreviato», sottolineando l'importanza del momento culturale nei processi di apprendimento, rispetto ai fattori biologici.

Dal 1889 al 1891, presso l'ateneo patavino, l'A. affiancò l'insegnamento della Pedagogia a quello di Storia della filosofia. La pedagogia intesa come scienza dell'educazione si doveva basare sulla psicologia e da questa trarre norme e leggi. L'educazione, a sua volta, era concepita quale «seconda natura», quale azione sociale e culturale diretta a formare «abitudini», in grado di contrastare quella «prima natura», dominata dalle forze istintuali (La scienza dell'educazione, 1893).

Sulla base di queste premesse teoriche, l'A. sostenne il ruolo centrale dell'educazione fin dalla prima infanzia nella formazione delle abitudini mentali, valorizzando le componenti emotive, insieme a quelle intellettive; in ambito scolastico, teorizzò un progetto di istruzione educativa, secondo cui tutte le discipline dovevano convergere alla formazione di una condotta morale interiorizzata. Da qui la proposta di una didattica impostata sull'attività, sull'esercizio, sull'abitudine, riorganizzata secondo ben definiti criteri metodologici che mettevano in discussione la lezione tradizionale.

Nonostante il pensiero ardigoiano non sfuggisse ad alcune contraddizioni che gli furono severamente rimproverate in particolare dagli esponenti della cultura idealista (in primis Giovanni Gentile), riconducibili, in ultima istanza, all'irrisolta dicotomia caso/necessità, fu comunque quel «senso operoso dell'ideale», costantemente perseguito dal filosofo, a rappresentare un significativo richiamo per i suoi scolari; tra questi sono da ricordare Giovanni Marchesini, Giuseppe Tarozzi, Ludovico Limentani, che, con percorsi diversi, offrirono una rilettura delle scienze umane nella fase di inesorabile crisi della cultura positivistica, apertasi con il nuovo secolo. Già ultranovantenne, il filosofo, dopo due tentativi di suicidio, si tolse la vita a Mantova il 15 settembre 1920.

[Tiziana Pironi]

Fonti e bibliografia: ACS, Roma, Ministero P.I., fondo Personale (1860-1880), b. 86 e Direzione Generale Istruzione Superiore, Fascicolo personale insegnante (1900-1940), II versamento, I serie, b. 14; Biblioteca universitaria, Padova, fondo Ardigò (ved. G. Mantovani, Le carte del filosofo. Il fondo R. Ardigò della Biblioteca universitaria di Padova, Trieste, LINT, 2003); W: Buttemeyer (ed.), Roberto Ardigò, Lettere edite e inedite, Frankfurt, M. L. Lang, 2 voll., (1)1990 e (2) 2000.

DBI, vol. IV, pp. 20-27; EF, vol. I, pp. 416-420; EP, vol. I, cc. 817-825; MC, vol. I, pp. 73-75; PE, pp. 36-37.

G. Marchesini, La vita e il pensiero di Roberto Ardigò, Milano, Hoepli, 1907; G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I positivisti, Messina, Principato, 1921, pp. 241-316; G. Marchesini, Roberto Ardigò. L'uomo e l'umanista, Firenze, Le Monnier, 1922; W. Buttemeyer, Roberto Ardigò e la psicologia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1969; A. Saloni, Il positivismo e Roberto Ardigò, Roma, Armando, 1969; R. Tisato, Positivismo pedagogico italiano, Torino, UTET, 1976, vol. II; A.L. Gentile, La religione civile del positivismo di Roberto Ardigò, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988; G. Landucci, Roberto Ardigò: fra tradizione nazionale e cultura scientifica europea, in «Atti e Memorie», nuova serie, vol. LVIII, Mantova, 1990, pp. 57-88; T. Pironi, Roberto Ardigò, il positivismo e l'identità pedagogica del nuovo stato unitario, Bologna, CLUEB, 2000.