Gioberti Vincenzo

Professioni: Sacerdote, professore, uomo politico
Ambiti di produzione: Filosofia, pedagogia, politica scolastica
Luoghi di attività: Piemonte, Belgio, Italia

Nato a Torino da umile famiglia il 5 aprile 1801, Vincenzo Gioberti studiò dagli oratoriani e si laureò in Teologia nel 1823, avendo come maestro e guida Giangiulio Sineo. Presi i voti nel 1825, divenne cappellano di corte, accostandosi allo stesso tempo alle idee mazziniane. Per ragioni di prudenza, abbandonò il suo incarico nel maggio del 1833, poco prima che venisse scoperta a Torino una congiura che gli costò prima il carcere e poi l'esilio.

Nel frattempo era entrato in una società segreta, detta dei Circoli, e poi in un'altra associazione patriottica, da identificarsi forse con i Veri Italiani. Dopo avere trascorso più di un anno a Parigi, si recò a insegnare a Bruxelles (Belgio) presso l'istituto colà fondato da Pietro Gaggia, un sacerdote italiano convertitosi al protestantesimo. Proprio nella capitale belga vide la luce la prima importante opera del G., la Teorica del soprannaturale, o sia Discorso sulle convenienze della religione rivelata colla mente umana e col progresso civile delle nazioni (1838), a cui seguì poco dopo l'Introduzione allo studio della filosofia (1839-1840, 2 voll.).

La sua notorietà fece registrare un'improvvisa espansione a partire dal 1843, quando pubblicò Del primato morale e civile degli italiani (1843, 2 voll.), in cui delineava un progetto di unificazione nazionale di stampo federalista sotto la guida del papa, reputato l'unico monarca in grado di aggregare le forze dei vari Stati regionali contro l'occupazione straniera. Tre anni più tardi vide la luce Il Gesuita moderno (1846-1847, 5 tomi), posto all'indice nel 1849.

Quando Pio IX salì al soglio pontificio, nel 1846, la politica della S. Sede sembrò fare proprio il progetto del G. L'abate aveva così potuto non solo rientrare a Torino in quello stesso anno, ma, eletto alla Camera subalpina, ottenerne la presidenza. Quindi, fu prima nominato ministro dell'Istruzione nel governo Casati (agosto 1848) e poi presidente del Consiglio (dicembre 1848-febbraio 1849). L'ipotesi neoguelfa tramontò tuttavia ben presto, così come la carriera politica del G., che non seppe andare oltre il proclama di innalzare la plebe «a dignità di popolo», perseguendo, in realtà, una politica filo-monarchica in tutti i casi in cui i legittimi sovrani erano stati scalzati dai moti del 1848. Costretto alle dimissioni, diede vita al giornale politico «Il Saggiatore», da cui provò a diffondere le proprie convinzioni.

Dopo un breve periodo trascorso come ambasciatore a Parigi, rinunciò all'incarico nel momento in cui capì che esso rappresentava il mezzo con cui il governo sabaudo si era liberato di lui e ritornò a vita privata. Nel 1851 uscì Del rinnovamento civile d'Italia (1851), la sua seconda grande opera politica, nella quale, abbandonata l'ipotesi neoguelfa, incitava all'unità nazionale affidandone le sorti alla famiglia Savoia. Ne seguirono non solo la condanna all'Indice di tutte le sue opere, ma una serie infinita di polemiche, scatenate dai giudizi poco lusinghieri che l'autore si era lasciato scappare nella sua ultima opera.

Se è vero che il G. scrisse assai poco di questioni specificamente pedagogiche, eccezion fatta per alcune pagine dell'Introduzione allo studio della filosofia (nelle quali definiva la pedagogia «disciplina mal agevolissima e ancora in fasce») e del Rinnovamento civile d'Italia, è altrettanto certo che molte delle sue opere riservano una notevole attenzione ai problemi educativi. Come per Giuseppe Mazzini, anche per il sacerdote torinese la politica non si risolve nella diplomazia o nell'individuazione di strategie socio-economiche, ma riguarda l'educazione nella sua accezione più ampia, ovvero nella formazione dello spirito nazionale.

Tale convinzione emerge con particolare evidenza nelle opere politiche del G., in cui egli individua proprio nell'educazione il fondamento dell'opera di redenzione civile e politica del Paese. Il riscatto non poteva che passare attraverso l'acquisizione di consapevolezza di identità propria, che da sola avrebbe condotto all'azione, ciò che veramente mancava al popolo italiano.

I primi responsabili di tale inerzia, secondo il G., erano i Gesuiti, che con il loro insegnamento «antinazionale» e «anticivile» avrebbero contribuito a insegnare agli italiani ad accontentarsi della loro condizione di inferiorità. Al contrario, era necessario «avvezzarsi pensando e studiando a operare», oltre che «instruire, formare una generazione nuova che di pensieri e di spiriti sia degna d'Italia e pari alla grandezza dei casi che si preparano. Gli studi austeri, in vece di debilitare il nostro vigore, l'accresceranno e ingagliarditi dalla palestra del pensiero, entreremo più baldi e sicuri in quella delle operazioni» (Del rinnovamento civile d'Italia, vol. II, cap. 7).

Fondamento essenziale dell'animo umano è, per il G., la volontà «che conferisce all'uomo il principato della natura e gli porge i mezzi di conoscerla e trasformarla, onde stabilire il suo proprio imperio» (Introduzione allo studio della filosofia, libro I, cap. 2). L'educazione è chiamata, dunque, in primo luogo a plasmare la volontà dell'individuo, esercitandola per mezzo della fatica e del lavoro fisici, ma soprattutto morali e intellettuali e a perseguire in ultima istanza la «perfezione».

Se la visione educativa giobertiana è fortemente impregnata di ideali cristiani e cattolici, sul piano politico il sacerdote torinese è tuttavia persuaso (in controtendenza con le coeve tesi cattoliche in materia di libertà di insegnamento) che la scuola debba essere gestita dallo Stato, opponendosi sia alle pretese dei Gesuiti, che auspicavano il ritorno a una situazione di Antico Regime, sia all'istruzione domestica di stampo rousseauiano, considerata utopistica, se non deviante.

Era convinzione del G., infatti, che «la scuola italiana non dee reggersi a principe né giurare nelle parole di alcun maestro, ma a guisa d'una repubblica teocratica avere a capo Iddio solamente», ma necessitando «di una guida che la regga, di un concetto che la fecondi», l'abate li individuava nel «genio patrio» da un lato e dall'altro nel «principio supremo della filosofia e di tutto lo scibile, ondeché il fatto distintivo della nostra nazionalità viene a essere tutt'uno coll'idea fondamentale della scienza, dalla quale medesimezza provengono i privilegi del primato italico» (Del rinnovamento civile d'Italia, vol. II, cap. 7).

Nel recepire gli inviti del pensiero liberale, il G. pensa all'istruzione come fattore di democrazia, da non confondere, però, con la demagogia rousseauiana, secondo cui tutti disponiamo delle stesse risorse intellettive e, pertanto, dovremmo ricevere la stessa educazione, anche se non è pensabile alcun riscatto nazionale in presenza di una troppo evidente disparità sociale, a partire dalla scuola.

Da un punto di vista didattico, egli assegna pari valore educativo alle scienze esatte quanto a quelle umanistiche. La materia che più di ogni altra si presta alla formazione del cittadino è, però, la filosofia, che «è la sommità dell'ingegno, che solo per via di essa può poggiare alle cognizioni più eccelse e avere il pieno possesso di se medesimo» (ivi). Alla filosofia, dunque, spetta il compito di formare il cittadino italiano nella conoscenza di sé e della propria patria. Non può essere considerato casuale il fatto che sul pensiero pedagogico giobertiano si sia scritto soprattutto durante il ventennio fascista (ved. Calò, Caramella, Stefanini, Spirito), utilizzandolo come base teorica su cui poggiare l'intervento dello Stato sulla scuola e sull'educazione in generale, incentrate, oltre che sulla filosofia, sull'unione di cristianesimo e sentimento patriottico.

Innegabile, infine, anche se andrebbe più approfonditamente esplorata, è l'influenza che il pensiero di Gioberti ha avuto sulla pedagogia italiana a cavallo dell'unità nazionale. La generazione di pedagogisti che animò la riforma della scuola piemontese prima e di quella italiana poi, e in particolare Giovanni Antonio Rayneri, Domenico Berti e Vincenzo Troya, seppe coniugare le idee di Antonio Rosmini sulle capacità cognitive dell'uomo con le convinzioni politiche e filosofiche di Gioberti, operando un sincretismo che certamente avrebbe stupito i due autori, i quali a più riprese si trovarono in disaccordo tra loro. Eppure, anche grazie ai manuali di pedagogia più o meno noti e originali, il pensiero rosminiano e giobertiano formò generazioni di insegnanti e di allievi sino all'inizio del '900. Il G. morì in solitudine a Parigi il 26 ottobre 1852.

[Paolo Bianchini]

Fonti e bibliografia: la parte più cospicua delle carte del G. è conservata presso la Biblioteca civica centrale, Torino, fondo Gioberti.

DBI, vol. LV, pp. 94-107; EF (ed. Bompiani, 2006), vol. V, pp. 4661-4663; EP, vol. III, pp. 5457-5461.

G.B. Gerini, Vincenzo Gioberti e le sue idee pedagogiche, Torino, Clausen, 1907; S. Caramella, La pedagogia di Vincenzo Gioberti, in «Levana», 1922, n. 4; L. Stefanini, Il problema della conoscenza in Cartesio e Gioberti, Torino, SEI, 1927; G. Calò, Il «Primato» di V. Gioberti e l'educazione della coscienza nazionale, in Id., Dottrine e opere nella storia dell'educazione, Carabba, Lanciano, 1932; F. Traniello, Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano, Angeli, 1990, pp. 43-62; Id., Il cattolicesimo riformato di V. Gioberti, in V. Castronovo (ed.), Storia illustrata di Torino, Milano, Sellino, vol. IV, 1992, pp. 1101-1120; G. Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione del pensiero filosofico di Vincenzo Gioberti alla luce delle opere postume, Milano, Mursia, 1999; G. Rumi, Gioberti, Bologna, Il Mulino, 1999.